Il contesto
Nel 1961 il Kuwait ha ottenuto l’indipendenza cessando di essere un protettorato britannico. Da quel momento ad un terzo della popolazione fu concessa la nazionalità con il titolo di “padri fondatori”, mentre un altro terzo fu naturalizzato come cittadino. Il rimanente terzo è stato invece ribattezzato come Bidoon Jinsiya, che tradotto dall’arabo significa “senza nazionalità”.
Secondo il Minority Rights Group International, questo gruppo di persone, per lo più provenienti da aree rurali tribali, non ha portato avanti la richiesta cittadinanza a causa della mancata conoscenza dell’importanza della nuova legge, dell’analfabetismo o dell’incapacità di fornire una documentazione adeguata. Purtroppo, successivamente nel tempo l’etichetta di Bidoon ha portato importanti conseguenze sociali e politiche ai discendenti. Sfide che ancora oggi si trovano ad affrontare. Inizialmente non vi era diversificazione del trattamento tra la popolazione bidoon e i cittadini: entrambi avevano accesso all’istruzione, ai servizi medici e al lavoro. L’unica libertà di cui i bidoon erano privi era il diritto di voto.
Tutto è cambiato nel 1986, quando il governo li ha dichiarati “residenti illegali” e i loro diritti sono stati lentamente tolti. Il governo kuwaitiano insisteva sul fatto che fossero cittadini di un altro Stato, nonostante nel 1988 una Corte d’Appello avesse stabilito il contrario. Durante la Guerra del Golfo i Bidoon costituivano la maggioranza dell’esercito kuwaitiano e sono stati incolpati dell’ avanzamento delle forze irachene. Infatti, al termine della guerra, alcuni soldati sono stati processati da tribunali militari con l’accusa di collaborazionismo con il nemico. Ai rifugiati Bidoon non è stato permesso di tornare presso le proprie abitazioni e circa 10.000 uomini sono stati deportati. La popolazione Bidoon è diminuita da 250.000 a 100.000 persone e quelle rimaste hanno dovuto fronteggiare ulteriori problemi: gli sono stati negati i documenti di identità e sono stati costantemente tormentati affinché rivelassero la loro “vera nazionalità”.
Queste sfide hanno accompagnato il popolo Bidoon nel XXI secolo e nel 2011 la comunità era giustamente frustrata. Il 18 febbraio 2011 ebbe luogo la prima protesta, nel periodo della notoria Primavera Araba, e il governo, non volendo avere problemi, ha promesso piccoli cambiamenti per placare le proteste. Tuttavia, come conseguenza dell’inerzia del governo, il 10 marzo il popolo scese nuovamente in piazza. Questa volta il governo rispose con la forza. Più di 140 persone furono arrestate senza accuse, nonostante i rapporti evidenziano che le proteste erano del tutto pacifiche. Il governo ha rinnovato la promessa che i diritti di base sarebbero stati riconosciuti al popolo Bidoon. Dieci anni dopo, la comunità sta ancora aspettando: il 27 aprile di quest’anno la NPR ha riferito che sei uomini Bidoon, per chiedere i loro diritti, hanno condotto uno sciopero della fame stazionando fuori una stazione di polizia per 19 giorni consecutivi. A undici anni di distanza, la comunità Bidoon sta ancora chiedendo al governo del Kuwait il riconoscimento dei propri diritti fondamentali. Vediamo quindi le sfide che queste persone stanno affrontando oggi.
Sfide Moderne:
Amnesty International stima che l’attuale popolazione di Bidoon in Kuwait sia di circa 100.000 persone. Recentemente, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha rilasciato il Report sulle pratiche dei diritti umani 2021. La popolazione Bidoon viene ripetutamente menzionata in tutto il rapporto sul Kuwait, evidenziando le numerose e quotidiane privazioni dei diritti fondamentali. In primo luogo, a causa del loro status di non-cittadini viene vietato loro qualunque tipo di manifestazione o riunione pacifica. Ironicamente, proprio ciò che chiedono nelle loro proteste. Ci sono state segnalazioni di molestie da parte delle autorità quando i Bidoon hanno tentato di organizzarsi pacificamente, e gli stessi organizzatori sono stati arrestati anche solo per aver pianificato l’evento. Questo viola il loro diritto di libertà di riunione. La popolazione Bidoon è nuovamente menzionata nella sezione dei prigionieri politici e dei detenuti per essere stati arrestati e condannati semplicemente per aver organizzato manifestazioni pubbliche. Inoltre, criticare l’Amir e le sue politiche discriminatorie contro tale minoranza sui social media può anche comportare una pesante pena detentiva, da sei mesi a dieci anni. È stato evidenziato il caso di Abdullah Fayrouz, che ha scontato otto anni per aver insultato l’Amir, poi condannato all’esilio, sfortunatamente però nessun altro Paese lo ha accolto.
È emerso che, durante la detenzione, i Bidoon subiscono maltrattamenti soprattutto da parte delle autorità. Si tratta di detenzioni arbitrarie e di abusi fisici e verbali. Il rapporto ha riscontrato l’esistenza di alcune procedure disciplinari contro gli agenti della polizia coinvolti nei casi. Inoltre, il rapporto ha affermato che sono stati compiuti degli sforzi effettivi affinché tali agenti venissero reputati responsabili.
Il diritto alla libertà di movimento è stato continuamente violato dal governo kuwaitiano. Molti hanno avuto problemi a viaggiare a causa della mancanza di documenti di viaggio e di passaporti ufficiali. È stato documentato un caso di alto profilo in cui un bambino Bidoon aveva disperatamente bisogno di cure mediche all’estero e gli sono state negate. Solo in seguito ad un’attenzione mediatica negativa la famiglia ha ottenuto il documento necessario. Si tratta dei passaporti che permettono di viaggiare ma non concedono la nazionalità.
L’accesso all’istruzione, diritto umano fondamentale dell’essere umano, è anch’esso limitato per i bambini Bidoon e i loro genitori. Infatti, a causa della mancanza di nazionalità, i Bidoon non possono frequentare le scuole pubbliche e i genitori non hanno altra scelta se non quella di mandare i propri figli in scuole private. Secondo il Minority Rights Group International, anche se le fondazioni caritatevoli coprono parte della retta, la qualità dell’educazione è inferiore a quella delle scuole pubbliche. Perdipiù, fino al 2013, i Bidoon non potevano in linea generale frequentare l’università nazionale, ma solo cento tra gli studenti migliori hanno la possibilità di accedervi annualmente.
Questa discriminazione continua anche sul posto di lavoro, dove lo status di clandestinità dei Bidoon crea ancora più problemi. I ministeri governativi offrono lavoro ai Bidoon, ma con contratti che garantiscono poca o nessuna sicurezza e non assicurano benefici appropriati a cui i cittadini hanno diritto, come il congedo per malattia retribuito. In un’ istanza, il Ministero della Difesa ha chiesto a seicento dei suoi dipendenti di rinnovare la carta di sicurezza, ovvero la carta d’identità data ai Bidoon per consentire loro l’accesso ai servizi di base. In pratica, però, non è sempre così. È capitato spesso che ai dipendenti Bidoon del Ministero della Difesa sia stato negato il rinnovo della carta di sicurezza con la giustificazione che la cittadinanza rappresenta elemento essenziale. È stato riferito che un uomo ha tentato di darsi fuoco quando la sua richiesta è stata rifiutata. Questi sono solo alcuni esempi delle ingiustizie e discriminazioni a cui sono soggetti gli apolidi.
Nella sezione dedicata agli apolidi del rapporto statunitense, viene descritta nel dettaglio l’estrema ingiustizia che il popolo Bidoon deve affrontare per poter ottenere la cittadinanza. Sebastian Kohn, autore di un articolo sull’argomento pubblicato su Justice Initiative, dopo aver intervistato diversi soggetti ha scoperto che secondo molti la mancanza di volontà di concedere la cittadinanza ai Bidoon è dovuta alla configurazione elitaria della politica kuwaitiana: le persone che occupano posizioni sociali di rilievo hanno poca considerazione o simpatia per chi è inferiore a loro. La magistratura non ha il potere di concedere la cittadinanza, così come le donne non hanno il potere di trasmettere la cittadinanza al proprio figlio se il padre del bambino è considerato Bidoon, comportando lo status di apolide del minore.
Sistema centrale come rimedio alla situazione dei residenti illegali
Il Sistema centrale per il rimedio alla situazione dei residenti illegali è l’agenzia governativa incaricata degli affari di Bidoon. Recentemente, il mandato dell’organizzazione è stato prorogato di due anni. Lynn Maalouf, vice direttrice regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa, ha dichiarato: “È profondamente deludente che le autorità kuwaitiane abbiano ritenuto opportuno estendere il mandato del Sistema centrale per il rimedio alla situazione dei residenti illegali, invece di affrontare l’urgente necessità di giustizia, responsabilità e riforma dell’agenzia“. La decisione ha suscitato numerose proteste. Il rapporto statunitense ha rilevato che ci sono stati numerosi suicidi nella comunità, in parte dovuti al fatto che l’agenzia non è riuscita ad affrontare adeguatamente le lamentele. Uno di questi suicidi ha riguardato un giovane Bidoon di 12 anni. Dal 2010, il sistema ha ricevuto decine di migliaia di richieste di cittadinanza, ma non è stato possibile accedere ai dati relativi ai tassi di approvazione e rifiuto. Il rapporto ha anche rilevato che nell’ultimo anno il Ministero degli Interni ha convocato diciannove attivisti per aver insultato l’agenzia e le sue attività. Al sistema è stato assegnato il compito di risolvere il problema dei Bidoon nel 2010, ma da quando è stato istituito, la vita della comunità Bidoon si è gravemente deteriorata.
Diritto internazionale
L’ex relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti dei non cittadini, David Weissbrodt, ha scritto sulla situazione nel 2008: “Come minimo, una persona dovrebbe avere diritto alla cittadinanza del Paese con cui ha il legame o il collegamento più stretto“. Molti Bidoon hanno prove del loro legame storico con il Kuwait, ma le leggi sulla nazionalità sono sempre più severe. Lo dimostra l’emendamento del 1980 che impedisce alle donne di tramandare la propria cittadinanza. Sebbene il diritto internazionale consenta agli Stati di decidere chi ha diritto alla cittadinanza, questo è limitato nel caso di una persona apolide nel caso in cui questa gli viene negata. Sarebbe infatti una violazione dell’articolo 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che afferma che “ogni individuo ha diritto ad una nazionalità” e che “nessuno può essere arbitrariamente privato della propria nazionalità, né gli può essere negato il diritto di cambiare la propria nazionalità”. Il Kuwait sta violando diversi trattati internazionali di cui è parte, come l’art. 24 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR) così come la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 che afferma il diritto del bambino ad avere una nazionalità e che “il bambino deve essere registrato immediatamente dopo la nascita” ratificata dal Kuwait nel 1991. Esistono due convenzioni internazionali sull’apolidia: la Convenzione delle Nazioni Unite sullo status degli apolidi (1954) e la Convenzione sulla riduzione dell’apolidia (1961), ma il Kuwait non ha ratificato nessuna delle due, il che è indicativo del suo atteggiamento in materia e della sua responsabilità come Stato-nazione.
Il futuro del popolo Bidoon
Sebbene la comunità Bidoon si trovi ad affrontare circostanze desolanti, continua a lottare per i propri diritti. Come visto il mese scorso dallo sciopero della fame condotto, i Bidoon non accettano la loro apolidia in silenzio, come vuole disperatamente il Kuwait. La priorità per i Bidoon resta la naturalizzazione. La comunità internazionale ha chiesto più volte al Kuwait di modificare le sue leggi e di permettergli di ottenere la cittadinanza. Nel 2017, il Comitato per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale (CERD) ha invitato il Kuwait a garantire ai Bidoon un accesso adeguato ai servizi sociali e modificare il loro processo di richiesta della cittadinanza. Nel 2013, Amnesty International ha chiesto che venga istituito un tribunale indipendente che abbia come unico compito la valutazione di tutte le richieste di cittadinanza. Il Minority Rights Group International, nel suo articolo sui Bidoon, ha chiesto che il Kuwait permetta almeno alle donne di trasmettere la cittadinanza ai propri figli. Il gruppo sottolinea inoltre che, mentre le richieste di cittadinanza vengono valutate dai vari organismi, il governo deve adottare misure per garantire il rispetto degli standard di vita e dei diritti fondamentali del popolo Bidoon.
Nonostante i ripetuti appelli e le numerose promesse di cambiamento da parte delle autorità kuwaitiana, la situazione rimane invariata: 100.000 persone sono sprovviste di una nazione da poter chiamare ufficialmente casa, nonostante il Kuwait sia l’unica casa che questi abbiano mai conosciuto. Sono intrappolati e trattati come stranieri nella loro patria.
Una mostra britannica intitolata Nowhere People ha citato un membro della comunità Bidoon che ha espresso il concetto in modo conciso: “Per i Bidoon la cittadinanza significa che il mondo intero riconosce che sono un essere umano. Ho dei diritti. Sono un essere umano. Non tanto perché i diritti sono materiali. Ma il diritto di esistere. Io esisto. Esisto come essere umano”. Queste persone nutrono ancora speranza, continuano a lottare per i loro diritti umani fondamentali, e la comunità internazionale deve sostenere questa missione.