Le Nazioni Unite definiscono lo stato di diritto come un “principio di governance in cui tutte le persone, le istituzioni e le entità, pubbliche e private, compreso lo Stato stesso, sono responsabili di leggi promulgate pubblicamente, applicate in modo equo e giudicate in modo indipendente, e che sono coerenti con le norme e gli standard internazionali sui diritti umani”. L’assenza o il collasso dello stato di diritto può portare a una diffusa cultura dell’impunità. L’assassinio di Jamal Kashoggi e l’impunità legata ad esso aiuta a comprendere la debolezza dello stato di diritto in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo.
La definizione di impunità è stata fornita nel 2005 dalla Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani (sostituita nel 2006 dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite). Secondo quest’ultima, l’impunità è “l’impossibilità di chiamare in causa gli autori delle violazioni […] poiché essi non sono sottoposti ad alcuna indagine che possa condurre ad accusarli, arrestarli, processarli e, se riconosciuti colpevoli, condannarli a pene adeguate e a risarcire le loro vittime”. Come conseguenza dell’impunità, chi è sospettato di atti criminali non viene perseguito o punito. Nel mentre, alle vittime – e alla società – viene negato l’accesso alla giustizia e alla verità sulle violazioni subite.
La situazione dei diritti umani in Bahrein, Kuwait, Oman, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Qatar è in costante deterioramento a causa della cultura dell’impunità. Le violazioni dei diritti dei difensori dei diritti umani sono troppo spesso accolte con l’impunità, e questo incoraggia e alimenta ulteriori violazioni, abusi e violenze nei confronti di chi lotta per promuovere i diritti umani. Come già menzionato, questa situazione è permessa dall’assenza dello stato di diritto. Nello specifico, la presenza di un sistema giudiziario non indipendente conduce spesso all’impunità. In tutti e sei i paesi membri del consiglio del Golfo, il potere esecutivo, legislativo e giudiziario supremo sono conferiti al governo centrale e in ultima analisi al sovrano e alla sua famiglia. Inoltre, nella maggior parte di questi paesi non c’è una chiara distinzione tra il potere legislativo ed esecutivo.
Nel 2021, l’Arabiai Saudita si è classificata 170esima su 180 paesi nel World Press Freedom Index, indietreggiando di cinque posizioni rispetto all’anno scorso. Inoltre, Freedom House ha dato un punteggio di zero punti su quattro all’indipendenza e libertà dei media degli UAE. La stretta regolamentazione dell’Arabia Saudita incoraggia l’autocensura tra i giornalisti.
In questo contesto si inserisce la storia di Jamal Ahmad Khashoggi, importante giornalista saudita. Per decenni, il 59enne è stato come consigliere del governo. Il rapporto con la famiglia reale si è interrotto nel 2017, quando ha iniziato un esilio autoimposto negli Stati Uniti. Khashoggi iniziò a scrivere da allora una colonna mensile sul Washington Post in cui criticava le politiche del principe ereditario Mohammed bin Salman, il figlio di re Salman e il sovrano de facto dell’Arabia Saudita. Khashoggi si è recato il 2 ottobre 2018 al consolato saudita di Istanbul per ottenere un documento saudita attestante il suo divorzio per sposare la sua fidanzata turca, Hatice Cengiz. Non è uscito vivo da quelle mura. Per più di due settimane, l’Arabia Saudita ha ripetutamente negato di sapere qualcosa del destino di Khashoggi. Il principe Mohammed ha anche dichiarato a Bloomberg News che il giornalista aveva lasciato il consolato “dopo pochi minuti o un’ora”. “Non abbiamo nulla da nascondere”, ha aggiunto.
Tuttavia, il 20 ottobre, il governo saudita ha annunciato che, sulla base di un’indagine preliminare dei procuratori, il giornalista sarebbe morto durante una “lotta” dopo aver resistito ai tentativi di riportarlo in Arabia Saudita. Più tardi, un funzionario saudita ha attribuito la morte a un soffocamento. Due anni e mezzo dopo, gli Stati Uniti hanno pubblicato il loro rapporto ufficiale sull’uccisione del dissidente saudita ed editorialista del Washington Post. Il rapporto afferma che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha approvato l’operazione che ha portato alla sua uccisione.
Il caso di Jamal Khashoggi in Arabia Saudita mostra la mancanza di trasparenza e la diffusa cultura dell’impunità in Arabia Saudita. I sauditi non sono riusciti a garantire che il processo agli agenti governativi dietro il brutale omicidio avvenisse secondo gli standard internazionali. Hanno resistito alle crescenti richieste di trasparenza e sono in corso processi a porte chiuse.
La cultura dell’impunità deve finire affinché la giustizia prevalga e garantisca la responsabilità per tutte le violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita e in tutti i paesi del Golfo. L’impunità equivale al fallimento nel denunciare le violazioni dei diritti umani e nel ritenere i loro autori responsabili, e porre fine alla cultura dell’impunità è fondamentale per garantire i diritti fondamentali. L’Italia intraprende regolarmente relazioni diplomatiche e commerciali con i paesi del Golfo e dovrebbe quindi pretendere che lo stato di diritto sia garantito in questi territori.